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Pd Veneto: "sicurezza e tasse, dobbiamo cambiare". E riapre la scuola politica

Di Rassegna Stampa Domenica 21 Giugno 2015 alle 12:05 | 0 commenti

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Per tutta la campagna elettorale di Alessandra Moretti, lo slogan del Partito Democratico era stato: «Il coraggio di cambiare». Poi è andata com’è andata (male: 22,7% delle preferenze, 600.000 voti persi nel giro di un anno, peggior risultato di sempre nella storia del centrosinistra a queste latitudini), tanto che ora Roger De Menech confessa al Corriere del Veneto un errore di bersaglio: «Non siamo riusciti ad intercettare il vero sentimento dei veneti, che non era il cambiamento, ma l’affidabilità. Ed evidentemente Luca Zaia si è dimostrato più affidabile di noi».

Per questo lunedì pomeriggio, nella prima riunione della direzione regionale del Pd dopo il fallimentare uno-due giocato fra il 31 maggio ed il 14 giugno, il segretario veneto detterà questa linea: «Per cambiare il Veneto dobbiamo cambiare noi stessi, cominciando a parlare una lingua diversa sui temi in cui finora non siamo stati credibili, a cominciare dalla sicurezza e dal fisco».
Iniziamo allora: perché ogni volta che c’è di mezzo la paura, prima per i ladri ed ora per i profughi, vince il centrodestra?
«Intanto vorrei premettere che non penso, come invece ho sentito dire pochi giorni dopo la sconfitta, che ci siano “veneti che non capiscono, che non sanno, che sbagliano”. È il Pd del Veneto che deve cambiare per entrare in sintonia con i cittadini. Detto questo la sicurezza, con particolare riferimento adesso all’immigrazione, è effettivamente una questione su cui dobbiamo essere più chiari. Non saremo mai il partito che spara ai barconi: chi vuole il populismo, scelga pure Salvini. Possiamo però essere di stimolo al Pd nazionale e dunque al governo per perseguire una gestione attiva del fenomeno».
E come, data la crescente ostilità verso l’accoglienza?
«Con un piano basato sulle certezze, in modo da disinnescare i motivi di conflittualità con i cittadini che non vedono di buon occhio le ragioni dell’ospitalità. Intendo velocità nel riconoscimento dello status di profugo o di clandestino, efficacia delle procedure di rimpatrio in mancanza dei requisiti di protezione, rapidità nell’attuazione di convenzioni sui lavori socialmente utili».
Quanto al fisco, non l’aveva già detto Matteo Renzi in direzione nazionale, che se non cambia approccio, il Pd in Veneto non vincerà mai?
«Sì, ma il Pd del Veneto va oltre, ponendo una questione settentrionale. Ora dal Nord può partire una grande riforma basata sul merito, per cui in tutti i pezzi della pubblica amministrazione vigano regole molto rigorose sull’utilizzo del denaro pubblico, attraverso l’applicazione del principio dei costi e dei fabbisogni standard. Premiando le amministrazioni virtuose, potremo abbassare la pressione sulle imprese».
E quando? Se ne parla da troppo tempo ormai.
«Credo che già nel 2016 vedremo i primi frutti dell’impegno del governo sul fronte dello sblocco del patto di stabilità e dell’introduzione della local tax. Siccome in Veneto abbiamo già dimostrato di saper sfruttare, prima e meglio di altri, la riforma del lavoro, possiamo fare lo stesso anche con la sburocratizzazione e con la spesa pubblica. Dobbiamo essere bravi da un lato a declinare le riforme nazionali in salsa veneta, dall’altro ad influenzare in modo positivo dal Veneto le politiche decise a Roma».
A proposito: quanto hanno pesato però proprio le politiche nazionali sulla disfatta, dopo il trionfo alle Europee?
«Se insistiamo a collegare in maniera diretta le dinamiche delle amministrative con i flussi di voto delle Europee o delle Politiche, vuol dire che non abbiamo capito quanto sia mobile l’elettorato. Nel 2014 abbiamo fatto il botto a Bruxelles, ma abbiamo comunque perso Padova. Viceversa in Toscana tre settimane fa è stato rieletto Rossi, ma domenica scorsa è stata perduta Arezzo. Questa è la dimostrazione che nel locale valgono ragionamenti locali».
Quindi le sconfitte venete sono figlie di genitori veneti?
«L’autonomia del Pd del Veneto è assoluta. Nessuno è venuto a dirci chi mettere in lista o come fare la campagna elettorale, quindi anche gli sbagli sono nostri. Lo ribadirò anche in direzione: oltre a proporre la riapertura della scuola di formazione politica per i giovani, perché non si può pensare di diventare dirigenti passando solo per un talk televisivo, dirò che non abbandono la nave mentre affonda. Infatti non capisco quelli che se ne vanno in dissenso: le battaglie vanno condotte dentro, non fuori, tanto più in un partito come il nostro, che ha la sua ricchezza proprio nella varietà delle sue sensibilità».
Fra quelle diverse anime, c’è chi mette in discussione le primarie. Condivide?
«Come non le esaltavo prima, non le demonizzo adesso: le primarie sono uno strumento politico, non un’arma per farsi le guerrette interne. Se una leadership emerge di per sé, grazie alla sua autorevolezza, le primarie possono non servire: mica sono un dogma».
Ma alle Regionali non avreste candidato comunque Moretti, anche senza primarie?
«Sì perché non c’erano figure più forti della sua. E anche chi oggi critica, allora aveva condiviso la scelta di puntare su una leader nuova: popolare, giovane, donna. Ma in aggiunta alle difficoltà del Pd, purtroppo Alessandra ha scontato un accanimento vergognoso sul piano personale».
E che dire di Felice Casson? Renzi ha perfino reso omaggio al «renziano» Brugnaro...
«No, quella era stata un’autodefinizione dell’imprenditore. Casson era sembrato a tutti la scelta giusta. O forse qualcuno del Pd di Venezia vorrebbe farmi credere che avrebbe accettato la candidatura di un corpo estraneo come Brugnaro?»

di Angela Pederiva dal Corriere del Veneto

 


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