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Chi sono i 13 "profughi" di Viale Milano? Un "pericolo sociale", per politici e stampa...ma siamo andati a vedere, e la realtà è ben diversa

Di Pietro Rossi Lunedi 3 Agosto 2015 alle 18:31 | 0 commenti

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Il punto di non ritorno è la non-notizia o, peggio, la notizia che diventa strumentale. E così, il trasferimento temporaneo di 13 profughi del Mali, che non sono appena sbarcati da un gommone ma sono nel vicentino da un anno, in un appartamento di Viale Milano che chiamano signorile ma in cui le tubature sono arrugginite, diventa un "caso" politico.

In realtà è ancora una volta un caso economico, oltre che sociale. Perché se da una parte sono molti in città gli appartamenti affittati alle cooperative che poi, secondo il piano di accoglienza del governo, li usano come alloggi, dall'altra parte oggi immigrazione vuol dire paura e paura significa sempre controllo sociale. Ecco il nostro piccolo viaggio al numero 86 di Viale Milano.

Quel palazzo, un tempo, aveva conosciuto altri fasti. Nato negli anni '50 era abitato dalla media e alta borghesia vicentina, aveva un portiere - tra l'altro protagonista di un brutto fatto di sangue avvenuto proprio al terzo piano -, gli infissi nuovi e tutti gli appartamenti abitati. Con gli anni la struttura è andata in decadenza, la guardiola del portiere è vuota e molti appartamenti sono stati (e alcuni lo sono ancora) sfitti per anni. Per inciso i 13 uomini - ma quasi tutti sono ragazzi al di sotto dei 30 anni - arrivati lo scorso lunedì da Sandrigo, non sono gli unici stranieri. C'è un'americana, una famiglia di cinesi, una di sudamericani. Si dice per dovere di cronaca, perché, ma forse nessuno se n'è accorto, i "palazzi signorili" sono da altre parti a Vicenza, ben protetti, e Vicenza, la "bella Vicenza", dolenti o nolenti, è diventata una città multietnica, come del resto tutta l'Italia. Chiaro che ci sono stranieri e stranieri. Quelli arrivati in Viale Milano, portati dalla cooperativa padovana Altre Strade, su indicazioni dello Stato Italiano con il suo piano emigrazione, sono visti come un pericolo e sono diventati un caso "politico".

Si dice caso "politico" ma non si capisce che voglia dire. Quando non si ha voglia di parlare si tira sempre fuori la parola "politico". Caso "politico", continua ripetere Fatima, l'assistente sociale che lavora per "Altre Strade" e che mi fa entrare nell'appartamento al terzo piano dove sono alloggiati i ragazzi del Mali. Vado lì accompagnato da un'inquilina del quinto piano che aveva chiamato la cooperativa per avvisarla di un problema strutturale del condominio e per avere informazioni sui nuovi inquilini. "Avevo letto sul giornale che la cooperativa era a disposizione per parlare con noi condomini - racconta - e loro, gentilmente hanno accettato un incontro". Il problema che hanno riscontrato quelle 13 persone che occupano l'appartamento al terzo piano è di natura tecnica, le troppe lavatrici e il flusso d'acqua continuo non reggono il sistema idraulico oramai vecchio e da cambiare. L'acqua si intasa e torna indietro, con il rischio di allagare l'appartamento. Tutti e tre andiamo in cantina a controllare: in effetti i tubi dell'acqua sono tutti arrugginiti e sembrano proprio alla fine della loro storia. Fatima fa fatica a parlare con me. Appena sente la parola "giornalista" e "intervista" si irrigidisce.
L'interno dell'appartamento è pulito e in ordine, appena entrati ci sono quattro bidoni - carta, vetro, umido e secco - per la raccolta differenziata. L'appartamento è grande e spazioso, il soggiorno è ampio e illuminato ma non è usato da camera da letto, le camere sono a destra e a sinistra del lungo corridoio. Dopo qualche minuto entrano nella stanza, uno alla volta, quattro o cinque ragazzi. Sono vestiti bene e molto gentili, ma si vede che non sono abituati a dare la mano, mi salutano con il saluto arabo, con la mano sul cuore. "Fatima mi aveva detto che sono musulmani molto osservanti", mi dice la nostra inquilina. Le informazioni le raccolgo da lei, perché la stampa ha il veto di parlare con i migranti. "Il momento è delicato, c'è una questione politica", mi dice. "Tutto è una questione politica, per questo bisogna parlarne", le rispondo. Niente da fare, niente interviste a lei e nemmeno ai ragazzi. "Non possono parlare e nemmeno si possono fare domande dirette, dipendono da noi". Ecco, come se fossero svuotati del libero arbitrio, come degli automi senza discernimento che devono seguire le indicazioni del tutor. L'unica cosa che mi dice Fatima è che sono appena tornati dalle lezioni di italiano che seguono con regolarità e che la cooperativa sta cercando abbastanza in fretta un'altra sistemazione.
Un minimo di storia, nonostante il silenzio, si riesce a tracciare lo stesso. In primo luogo sembrerebbe che la locazione di Viale Milano non sia un caso isolato, ma che in città siano molti i proprietari di appartamenti che danno in locazione l'abitazione alla cooperativa. L'affitto viene infatti pagato da "Altre Strade" che poi, secondo disposizioni ministeriali, colloca per un certo periodo di tempo i profughi. Come nel nostro caso. La procedura standard è di avvisare i condomini. Fatima ha infatti riferito all'inquilina di aver contatto l'amministratrice, la quale non avrebbe mai accolto la proposta di una riunione con tutti i condomini per parlare dell'ingresso dei maliani. Inoltre, la stessa cooperativa, sarebbe passata in tutti gli appartamenti per avvertire del fatto, lasciando anche un biglietto esplicativo con i numeri di telefono da contattare nel caso di eventuali problemi. Il fatto che fin già da subito qualcuno sapeva di questa presenza era visibile con un cartello, affisso appositamente, che invitava a non mettere le biciclette - gli immigrati ne hanno a disposizione tre o quattro - dentro l'androne, segnalazione andata a buon fine, visto che hanno iniziato a metterle in cantina.
Sembrano molto intenzionati a rispettare le regole, questi uomini che vivono in otto metri quadrati a testa. Di certo, qualsiasi problematica a Vicenza non è nemmeno paragonabile all'inferno della guerra in Mali. Sarebbe bello sentire la loro opinione, sapere cosa pensano dei politici locali che gridano al "pericolo sicurezza". Sapere se sono realmente ferventi musulmani, una religione per la quale l'uso e lo spaccio di droga, nonché il furto sono considerati peccati estremamente gravi. Sapere dei loro parenti in Francia che mandano soldi a qualcuno di loro per acquistare vestiti decenti o cellulari, cose quotidiane per gli occidentali, oppure del rapporto con i volontari che pure quelle cose gliele regalano. O ancora, sapere come riescono a risparmiare qualcosa dai 2,5 euro giornalieri che prendono dallo Stato Italiano e con i quali devono pure comprarsi qualche extra personale. Qualcuno chiede "ma non potrebbero lavorare?" Ma forse pochi sanno che per legge, per mantenere lo stato di profugo e quindi il permesso di soggiorno, non possono trovarselo per almeno i primi sei mesi. Ma questa è un'altra storia, una storia di affari - 100 mila euro al giorno è il costo dell'accoglienza in Veneto di 2500 profughi - e di locali che magari altrimenti non verrebbero affittati. Con loro la pigione è sicura e, viste l'attenzione e l'omertà, anche il controllo.
Ma forse, considerando anche queste cose, il profugo o l'immigrato diventerebbe più umano e non si potrebbe più parlare di degrado, dimenticando i clienti, di "sgombero", scordandosi che per legge il Comune non può assolutamente farlo, e di pericolo sociale. Certo, vivere in 13 in duecento metri quadrati non è proprio il massimo, come non è il massimo vivere stipati in un albergo. Ma lo spauracchio che aleggia è sempre quello: la sicurezza. E il rischio è di fare di tutta l'erba un fascio...che poi prende fuoco.


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