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Ciao ciao Padania, sfruttamento del lavoro nella piccola impresa veneta

Di Citizen Writers Sabato 13 Giugno 2015 alle 19:53 | 0 commenti

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Riceviamo da Luciano Orio e pubblichiamo

Nord-est. Vent'anni fa se ne parlava come di una locomotiva che trainava l'economia del Paese. Era il tempo del cosiddetto miracolo economico della piccola impresa veneta, dei distretti industriali. Dopo anni di virtuosismo produttivo e un'indigestione di capannoni e imprese, ora, con la crisi, anche il “mitico” nord-est arranca. La locomotiva ha vistosamente rallentato la sua corsa, è quasi ferma. Flop.

Abbandonata l'idea bislacca della Padania, anche la Lega Nord cerca rifugio nei più tradizionali “valori” della destra nazionalista, razzista, reazionaria. Indipendenza? Federalismo? Ma quando mai...

Adesso piangono padroni e padroncini (li chiamano imprenditori , da un po' di tempo a questa parte), oggi che è saltato il modello economico del nord-est, quello che si è imposto sulla torchiatura dei lavoratori, sul cliente unico cui demandare la propria esistenza, quello che ha fatto della quantità il credo cui sacrificare tutto, quello fatto di persone impossibilitate alla ricerca, quello dell'assenza del polmone finanziario e tenuto al guinzaglio corto dal mutuo in banca. Piangono la crisi economica mondiale davanti alle telecamere, piangono miseria e chiudono le fabbriche per andarle a costruire altrove, in Romania, Slovenia o dove più si può lucrare.

Com'era allora?

Ricordo l'inizio di questo fenomeno nel Veneto bianco, quando a fine '60, anche la fabbrica-paese in cui lavorava mio padre venne investita (meglio sarebbe dire lambita) dall'onda lunga delle lotte operaie. In quel contesto la semplice adesione al sindacato e qualche raro sciopero diedero il via a intimidazioni e minacce dei padroni, per isolare gli elementi più riottosi, reparto per reparto. La disaffezione e il distacco di questi operai dall'azienda era ormai palese, tuttavia si trattava di elementi con alto livello di professionalità e i padroni, con mossa astuta, proposero loro di prendere in carico una delle attività dell'azienda, una branchia produttiva correlata alla catena principale, la produzione di macchine confezionatrici, costituendo un'azienda in proprio, con la ovvia “partecipazione minoritaria” dell'azienda madre.

Come resistere a una simile proposta? Anche l'operaio vuole il figlio dottore, si cantava in quegli anni. Probabile che più di qualcuno abbia sognato il figlio imprenditore; fatto sta che la piccola impresa venne costituita e rapidamente costretta nelle maglie della gestione di ordinativi e di costi necessari all'impresa-madre. Ne soffrirono ovviamente i lavoratori, ridotti all'ambito dell'impresa artigiana e quindi meno pagati e tutelati La stessa impresa artigiana si assumeva il costo degli oneri sociali che l'azienda-madre risparmiava.

Fu l'inizio di quello che vidi espandersi in seguito e che venne chiamato col nome di decentramento produttivo.

Lavoro, lavoro e ancora lavoro. Una miriade di aziendine nacque dagli scorpori, col medesimo iter: l'operaio che si stacca dalla fabbrica, compra la macchina alla quale lavorava e continua a produrre esattamente come prima però a casa, a cottimo, facendo risparmiare ala società da cui proviene un sacco di oneri sociali e magari lavorando in nero per guadagnare di più e gettare le basi per un'azienda propria, a partire dal garage dietro casa, dalla stalla.

La fabbrica crebbe così con i reparti distribuiti sul territorio, spesso casa per casa. E questo è valso per tutti i comparti più forti, i mobili, la meccanica, l'abbigliamento.

La religione del lavoro è stata servita e somministrata in dosi massicce, con buona pace della sparuta minoranza di quanti ritenevano che con le battaglie sindacali si poteva ottenere di più. Ognuno per sé e dio per tutti, appunto. “Idolatria del produttivismo” la definì il vescovo di Udine Battisti, all'epoca in cui si contava, cifre alla mano, quanti veneti ci volevano per fare cinque operai giapponesi (tre veronesi, secondo il reddito lordo pro-capite prodotto).

Tempi moderni

Innestare il verbo della flessibilità in un simile retroterra è stato un gioco da ragazzi. Il modello veneto era pronto a recepire i nuovi concetti neo liberisti, soprattutto in tema di organizzazione del lavoro e massimizzazione dei profitti, da conseguire con ogni mezzo a disposizione. In generale si trattava di riportare il tasso di profitto ai massimi livelli. Nel mirino la drastica riduzione del costo del lavoro, attraverso la delocalizzazione delle unità produttive in zone dove i salari erano minori, ma anche con l'attacco ai diritti condotto direttamente dallo stato.

Contemporaneamente viene aumentata la pressione sui lavoratori per attuare varie forme di razionalizzazione produttiva, mirata, soprattutto, ad attivizzare il singolo lavoratore, al quale compete il dovere di iniziativa sul lavoro. E' il lavoratore che deve dare tutta la propria disponibilità, nel caso di picchi come nel caso di cali produttivi, essere concorrenziale, avere idee nuove, impegnarsi ed aggiornarsi, disposto a sperimentare. Il singolo lavoratore deve “mettersi in gioco”, pena il ritrovarsi lui stesso fuori mercato.

Qualche anno fa Renzo Rosso, padre-padrone della Diesel e massimo interprete del nuovo modello di organizzazione, così commentava le assunzioni nella sua azienda: “Me li scelgo io i ragazzi che assumo, anche l'ultimo dei magazzinieri. Non mi interessa il fattore tecnico, che uno sia bravissimo o cose del genere... Mi interessa la personalità. Perchè quando uno entra qua dentro ha tutte le porte aperte. Ma attenzione: se non sarai all'altezza non sarò io a emarginarti ma i tuoi stessi compagni di lavoro”.

Una filosofia di competitività spietata, che, applicata all'ambito della piccola impresa, è quanto di più funzionale alla massimizzazione dei profitti.

La “disponibilità” operaia a concorrere al proprio sfruttamento è obbligata, direttamente connessa al grado della propria ricattabilità: si può rimanere a casa mesi in cassa integrazione (pagata dallo stato) o in ferie obbligate, mentre il ricorso allo straordinario o al lavoro festivo rientra nella normalità.

E che dire del lavoro nero, oggi legalizzato dai contratti voucher? Che dire del continuo ricorso ai forti incentivi fiscali introdotti col Jobs Act e con la legge di stabilità 2015? Che dire dei licenziamenti mirati a disfarsi del vecchio personale per far posto a nuove assunzioni, magari con detribuzione piena per 36 mesi? (Ormai il risparmio sui contributi previdenziali sulle nuove assunzioni è decisamente superiore al costo di un licenziamento illegittimo.

Queste piccole aziende diventano l'espressione compiuta della specializzazione flessibile

e sopperiscono alla crisi di medie e grandi aziende. Il loro valore aggiunto sta nel fatto di diventare ancora più flessibili e per diventarlo hanno bisogno della precarietà. E' in queste aziende che nasce il modello della precarietà necessaria.

Leggi tutti gli articoli su: Lega Nord, Renzo Rosso, Padania, Luciano Orio

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